Dàs a Trà è il racconto a puntate della fondazione di Ande, una storia di famiglia, e del nostro amore per il mondo verticale, nelle parole del nostro fondatore Aldo.
Aldo Anghileri, per tutti “Aldino”, lecchese “doc”, classe 1946, alpinista e imprenditore. Il DNA per il mondo verticale è quello di papà Adolfo, che fu tra i più forti alpinisti lecchesi degli anni Trenta del secolo scorso. Dopo aver giocato sulla Medale, la palestra naturale che domina la Valle del Gerenzone, mettendosi subito in evidenza, Aldino si presenta al cospetto del Badile e, nemmeno diciottenne, in quattro ore e mezza si mangia la Nord Est.
Nel 1965 porta a casa la prima invernale allo spigolo nord del Badile con Pino Negri e Casimiro Ferrari. Dieci anni dopo compie la prima ripetizione, sempre in invernale sulla Gervasutti e Boccalatti al pilastro sud ovest del Pic Gugliermina nel Massiccio del Monte Bianco, con Gianluigi Lanfranchi, Amabile Valsecchi e Piero Maccarinelli. Non mancano le aperture di nuove vie, allo spigolo nord ovest della Cima Su Alto con Ignazio Piussi, Alziro Molin e gli amici Ragni Ernesto Panzeri e Guerino Cariboni nel 1967.
L’anno seguente apre la Via dei Ragni sulla Parete Est del Grand Capucin con Carlo Mauri, Casimiro Ferrari e Pino Negri. Nel ’72 con Alessandro Gogna e Piero Ravà apre la via sullo spigolo nord est del Brenta Alta e nello stesso anno, sempre con loro due, ai quali si aggiunge Gianluigi Lanfranchi, apre una via sulla parete sud della terza Pala di San Lucano. Nel suo lungo curriculum c’è spazio nel 1975 anche per una spedizione nazionale sulla parete sud del Lhotse guidata da Riccardo Cassin che vede tra i suoi componenti Reinhold Messner, Alessandro Gogna, Mario Curnis, Ignazio Piussi e molti altri forti alpinisti.
Aldo, che cosa o chi ti ha spinto ad avvicinarti alla montagna e in particolar modo al mondo verticale dell’arrampicata?
E’ stato un avvicinamento puramente casuale. Mio fratello arrampicava già, aveva fatto la scuola dei Ragni, aveva due anni più di me. Io avevo quindici anni e non potevo frequentare la scuola perché bisognava averne sedici. C’era mio padre che era tutto montagna e lavoro, mio fratello che raccontava le sue avventure, e poi c’ero io che giocavo un po’ a calcio. Incuriosito dai racconti di mio fratello, volevo provare anche io. Gli chiesi se potevo accompagnarlo, ma disse di no perché io ero l’Aldino, quello piccolo. Allora la compagnia era formata da mio fratello, Gian Mario Piani, Ernesto Panzeri e Pino Negri, tutti più grandi di me. Sono andati in Grigna, in Magnaghi, e io li ho seguiti a distanza. Hanno fatto la normale di Magnaghi, che ad un certo punto ha un pezzo dove si forma colonna. Io lì li raggiunsi da dietro: andarono su tutte le furie quando mi videro. Al pomeriggio scesero ai Resinelli, fecero lo Spigo del Nibbio: ci sono andato anche io dopo di loro. E da lì è iniziato tutto: tra me e la montagna c’è stata una sintonia immediata.
Qual è stata la salita che più ti è rimasta nel cuore?
Questa è una bella domanda. Una salita sola non c’è. Forse la via che mi è rimasta più nel cuore è la Boga in Medale, più ancora che la Nord Est del Badile. Certo, è meno importante, ma è stata la prima esperienza in solitaria. Tra le vie nuove, la Cima Su Alto è stata quella che mi ha impegnato di più: l’avevamo tentata due o tre volte, avevamo avuto degli incidenti. Abbiamo avuto la fortuna di incontrare al rifugio Piussi e Molin, con cui è nato un rapporto favoloso. La Su Alto ci ha dato del filo da torcere, ma è stato lì che ho messo il mio primo chiodo a espansione. Il Capucin è stata un’altra grande, grande via dal punto di vista tecnico.
Hai mai avuto paura durante le tue arrampicate?
Non la chiamerei paura, ma ti devi preparare. Hai qualche preoccupazione, ma se la risolvi nella tua testa, sei libero di andare. Ho letto tanti libri di alpinismo: è così anche per gli altri… Ma non la chiamerei paura, anche quando arrivavano i temporali, se eri preparato dentro riuscivi a risolvere le cose. Se hai paura allora non parti.
Ci lasci con una tua storia da giovane alpinista?
Dopo la Cima Su Alto, sono rimasto in contatto con Alziro Molin e Piussi. Un giorno io e Molin, che era più grande di me di una decina d’anni, dopo aver affrontato insieme la Nord Est, abbiamo deciso di tentare anche la Philipp, che Reinhold Messner aveva affrontato l’anno prima in solitaria. All’epoca la Philipp era il metro di paragone. Sono partito allora da Lecco in autostop: siccome il sabato mattina si lavorava, avevo previsto di arrivare a destinazione intorno alle cinque del pomeriggio. Sono arrivato alle sette di sera e ho trovato Alziro lì che mi aspettava. Partiamo, ci fermiamo al Rifugio Coldai che sono già le 11 di sera, ma decidiamo di andare a dormire al Tissi perché con il Tissi, dopo la Su Alto, avevamo un legame speciale. Siamo arrivati all’una di notte: ai rifugisti, marito e moglie, che ci volevano un bene dell’anima, abbiamo chiesto di essere svegliati la mattina dopo alle cinque per ripartire. Ci hanno svegliato alle sei: ci hanno fatto dormire un’ora in più perché eravamo sfiniti. Siamo ripartiti come dei razzi, una volta ridiscesi ho ripreso di nuovo l’autostop. Sono arrivato a casa, a Vercurago, alle tre e mezza di notte, dopo aver pensato in alcuni momenti di dormire in un prato se non avessi trovato un passaggio. E la mattina dopo, alle 7.30 bisognava ricominciare a lavorare! Questo per dire che quando desideri tanto una cosa, alla fine la fai.
Non perdetevi i prossimi episodi di Dàs a Trà, il racconto di una storia di famiglia.
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Alla prossima #AndeExplorers!
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